Ultima Cena
(Caldarola, 1538-1613)
olio su tela, 225 x 182 cm
Iscrizione: SIMON DE MAGISTRIS I
CALDAROLE, SIS / PIC TURAM ET/
SCULTURAM FACIEBAT / A D
LXXXXVIII
Provenienza: cappella del Santissimo Sacramento, costruita come prima sede per il crocifisso dei trecento esuli ginesini, nella collegiata di Safà_ Maria Annunziata, San Ginesio \Mc) Collocazione: San Ginesio (Mc), collegiata di Santa Maria Annunziata, ambulacro dell’attuale cappella del crocifisso ligneo
La tela rappresenta l’ultimo episodio conviviale della vita terrena di Gesù, poco prima di essere arrestato, mentre stava facendo ritorno a Betania per la notte. In questa immagine, il pittore ha voluto cogliere il momento di grande sconcerto degli apostoli, successivo al- 1′ improvvisa rivelazione del divino convitato: «In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà».
Simone De Magistris pone in rilievo il turbamento dei commensali che, perlopiù a coppie, commentano sommessamente il grave addebito fatto dal Cristo a uno di loro. Colpisce immediatamente l’atmosfera di preoccupata e ansiosa reazione dei discepoli, alla quale si contrappone la serenità di Gesù con lo sguardo abbassato e in posizione evidentemente sovvertita rispetto a quella con cui solitamente è dipinto, che lo raffigura al centro del desco.
Infatti, egli siede quasi ali’ angolo destro della tavola fra san Giovanni, prostrato e col capo stretto tra le mani, e san Pietro, che occupa il posto d’onore, alla destra di Gesù, e che qui si rivolge al maestro con somma devozione, anche se poi lo rinnegherà per ben tre volte nella notte del- 1 ‘arresto.
La mensa è riccamente imbandita, una vera e propria natura morta che richiama il realismo della pittura nordica, su cui campeggiano il vassoio contenente un cosciotto arrostito e alcune pagnotte, una delle quali è parzialmente affettata con allusione al pane spezzato dal Signore. Le vivande e le stoviglie sulla tavola rivelano la particolare attenzione del pittore agli aspetti della realtà obiettiva, comuni ad alcune manifestazioni della pittura lombarda e a quella dei fiamminghi conosciuti, forse, mediante le stampe delle loro opere. La tovaglia del desco apparecchiato per la cena mostra evidentemente la quadrettatura del suo ripiegamento.
In primo piano, fulcro della narrazione pittorica, seduto su uno scanno posizionato di sghimbescio, contenente nel fianco la cartelletta firmata, è raffigurato Giuda Iscariota. Il traditore ha un aspetto spregevole, sottolineato dalla capigliatura scomposta, dalla barba che gli allunga il mento già appuntito, da un bitorzolo sull’unica guancia visibile e dall’estremità del naso a ballotta.
È ritratto di profilo, con lo sguardo volto a Gesù mentre con la sfrontatezza del braccio disteso sul petto chiede al Cristo se sarà lui a tradirlo, e quasi non si appoggia sul sedile, scaricando il peso del corpo sulla gamba sinistra.
Con la mano destra stringe, nascondendolo, il sacchetto contenente le trenta monete d’argento – il prezzo degli schiavi – compenso del suo tradimento. Sulla veste verde che indossa è gettato un ampio mantello rosso, e «la sua collocazione è condizionata da quella del Cristo, il quale se tornasse nella posizione centrale lo emarginerebbe automaticamente» (Cuppini 2001, p. 121). Davanti alla tavola dell’ultimo convivio di Gesù con gli apostoli è dipinto, si direbbe quasi sul proscenio, un cane minacciosamente rivolto verso un gatto, rimpiattato nell’ombra,. sotto il desco apparecchiato, non lontano dallo sgabello di Giuda.
I due animali domestici simboleggiano il contrasto tra i sentimenti del traditore e quelli degli altri commensali, nel momento amicale dell’evento. Il gatto, inoltre, con la sua fama negativa, ha valenza simbolica di fedifrago, in sintonia con l’apostolo che gli sta vicino. La tragedia imminente di questa rappresentazione è ben espressa dal nervosismo dei volti, dallo stravolgimento dello spazio tradizionale, dal cromatismo della composizione.
Sul fondo, dietro la figura di Gesù, due misteriosi personaggi col turbante sul capo sembrano avere la funzione di osservatori. Nel lontano 1834, Amico Ricci nominò sommariamente le··«due grandi storie, l’una con l’ultima cena di Cristo, e l’altra con l’andata del medesimo al Calvario, non già per lodarle, ma per convincersi, che un primo passo al manierismo trasporta al peggioramento dello stile» (Ricci 1834, n, p. 155). Il Manierismo, all’epoca, aveva evidentemente lo stesso significato di declino del buon gusto.
Bibliografia
Ricci 1834; Cuppini 2001.
LUIGI MARIA ARMELLINI
Tratto dal catalogo della mostra 2007
Simone de Magistris. Un pittore visionario tra Lotto ed El Greco
a cura di Vittorio Sgarbi