Feste contadine e popolari
Uno dei fatti più notevoli degli ultimi anni in provincia, sotto il profilo culturale e sociale, è stata la riscoperta delle tradizioni popolari, come patrimonio insostituibile, ricchezza da non perdere, passato che si fa presente. Presentiamo qui una breve sintesi delle tradizioni popolari della provincia di Macerata, dividendole in tre cicli: ciclo del solstizio d’inverno, ciclo dell’equinozio di primavera, ciclo del solstizio d’estate.
Ciclo del solstizio d’inverno.
Nel maceratese questo ciclo è aperto e chiuso dai canti della “Passione delle anime sante”, un componimento poetico che narra le sofferenze delle anime del Purgatorio e ne sollecita i suffragi. I “rapsodi” popolari lo cantano per il contado durante il mese di novembre e in particolare nei primi nove giorni, ma anche la quarta domenica di Quaresima, sul finire dell’inverno. Il gruppo è costituito di solito da due “canterini” e da un suonatore di organetto. Uno dei due cantori porta a tracolla la “catàna”, cioè una cesta di vimini con coperchio dove vengono riposte le uova ricevute in dono dai campagnoli. A dicembre, uno dei mesi più ricchi di tradizioni popolari, c’è la “Festa della venuta” legata alla tradizione della Santa Casa di Loreto, rimasta viva nel popolo maceratese. Nei giorni precedenti la notte della Venuta, il 10 dicembre, i ragazzi si spargono qua e là per le campagne in cerca di legna per “li focaracci”. E la sera della Venuta tutte le case accendono i loro falò. Ma la festa più importante dell’anno è il Natale. E’ quella più attesa e sentita. Al Cenone della Vigilia (a Macerata detto “magnò”) sulla tavola compaiono i cibi tradizionali: maccheroni al sugo delle sardelle (o con le noci) o un piatto di ceci o di altri legumi, il “toccafisso” o merluzzo, l’anguilla, il classico “sellaro”, cioè il sedano. La tradizione comprendeva anche l’accensione del ciocco, che invade il focolare, e arderà fino all’Epifania. La sua cenere viene conservata per essere sparsa, poi, nei campi, ripetendo un apposito scongiuro contro i bruchi e la grandine. Dopo cena invece si tiravano i “capomesi” per prevedere le vicende stagionali, oppure si facevano gli indovinelli, per passatempo, oppure si raccontavano le scantafavole. In occasione del Natale la fede si riaccendeva più viva: pochi mancavano alle funzioni religiose, molti andavano alla messa di Mezzanotte, anche con la neve, per ascoltare la pastorella, la musica più gradita di tutto l’anno.
Il giorno di Natale tutti evitano anche il più modesto lavoro. Altre tradizioni riguardano la notte di San Silvestro, cioè quella dell’ultimo dell’anno. A Bolognola, a mezzanotte in punto, si spegne la luce per riaccenderla un attimo dopo. La fiamma che muore e ritorna è in sincronia simbolica con la fine e l’inizio dell’anno. A Pioraco si usava fare la crescia: una specie di pizza con dentro una moneta detta “lu paulitto dentro”. Colui al quale va il pezzo di crescia con questa moneta, sarà padrone di casa per tutto il nuovo anno. Usanza tipica di Camerino e dintorni, della notte di San Silvestro, è quella di mangiare a mezzanotte precisa nove acini d’uva, tutti in un boccone. Se cade anche un solo acino, si ritiene una cosa di cattivo augurio. Il nuovo anno ha una prima grande festa, quella dell’Epifania, che, nel maceratese, viene considerata la prima Pasqua dell’anno e viene denominata Pasquella, cioè piccola Pasqua, per distinguerla dalla Pasqua maggiore e dalla Pasqua rosa, che ricorre nella Pentecoste. Alla vigilia dell’Epifania, nelle Marche c’era usanza di andar cantando per la campagna la Pasquella. Generalmente l’organetto accompagnava il canto e da parte loro i campagnoli non tralasciavano di donare qualcosa: uova, salsicce, polli.
I canti della Pasquella coincidono con le feste campagnole per l’uccisione del maiale e in tal senso rientrano nell’ambito dei canti di questua che, nella tradizione popolare, caratterizzano l’avvicendarsi dei mesi soprattutto nel periodo invernale. Tra tutti i Santi patroni particolare devozione ha Sant’Antonio protettore degli animali, propiziato ancor oggi con pubbliche e solenni manifestazioni. La mattina del 17 gennaio, terminata la Messa, il sacerdote distribuisce ai contadini le pagnottelle benedette e un calendario con l’immagine del Santo, che viene appeso nelle stalle. Con la festa di Sant’Antonio ha inizio il Carnevale. In genere apre il Carnevale colei, tra le più nobili, che era convolata a nozze per ultima e percorre, mascherata, il corso in carrozza. A pranzo si mangiano pasta, salsicce, frittelle, e si beve il vino cotto. Il 2 febbraio ricorre invece la Festa della candelora: si distribuiscono le candele benedette che vengono appese accanto al letto, vicino alle immagini sacre, per essere accese nei momenti di pericolo e di sventura, nei forti temporali, per allontanare le grandinate estive. Si ricorre ad esse anche nelle malattie. E dopo lo spensierato periodo di Carnevale, inizia la Quaresima: il mercoledì delle Ceneri i fedeli si recano in chiesa “a prendere le ceneri” e si è così pronti a iniziare quel duro e interminabile periodo quaresimale, che si interrompe nella “mezzaquaresima”, che consente un “qualche temperamento nell’uso dei cibi e qualche divertimento”. Il ciclo del solstizio d’inverno è chiuso dai canti di Caccià ‘mMarzu: negli ultimi giorni di marzo, gruppi canori, con l’inseparabile organetto, girano per il casolari annunciando l’avvento della primavera. Anche questa usanza ha certamente stretta relazione con il carattere eminentemente agricolo del popolo maceratese.
Ciclo dell’equinozio di primavera.
Con la domenica delle “Palme”, ha inizio la “settimana santa”, che prepara direttamente alla Pasqua, che, in una civiltà agricola, non può avere collocazione migliore che nei giorni dell’equinozio di primavera, quando la vegetazione e la natura risorgono a nuova vita. Innestata sul tessuto della Pesach (la Pasqua ebraica) e dei miti pagani, la Pasqua cristiana nel maceratese ha conservato riti e tradizioni superstiziose che nulla tolgono a una vera e sentita religiosità. La liturgia della settimana santa prevede vari momenti: la domenica delle Palme, per commemorare l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, e in cui quindi ci si reca in chiesa a prendere il ramoscello d’ulivo benedetto, ritenuto efficacissimo a preservare la propria casa da ogni male. Il giovedì santo invece, dopo la messa in cui si ripete il gesto di Gesù della lavanda dei piedi, inizia la visita ai sepolcri. Il venerdì santo è caratterizzato soprattutto da due funzioni: le tre ore di agonia e la processione di Cristo morto. Per tutta la settimana santa intanto, nella rigorosa astinenza da ogni cibo proibito, tutti sono indaffarati a pulire le strade, le case, per la benedizione pasquale. Con la benedizione del sabato santo, si toglie definitivamente il “prete” dal letto, che era una specie di scaldaletto. Per Pasqua si usa anche rinnovare qualche capo di vestiario e si tolgono i vestiti pesanti. Ma al di là del folklore e di queste piccole superstizioni, si nasconde, in queste tradizioni un acuto desiderio di liberazione e di salvezza. Si arriva quindi a maggio: quando maggio era il maggio odoroso, presentava una vasta e colorita gamma di consuetudini tradizionali.
Il primo maggio era molto diffusa l’usanza di piantare alberi, ovvero dei rami fioriti, o rivestiti di nuovo fogliame primaverile, chiamati “li maggi” nelle piazze o nei posti più frequentati, o magari davanti alle case delle ragazze. L’origine di questa usanza va ricercata molto lontano: già i greci, poi i romani, facevano processioni attraverso i campi cantando il maggio. Questi riti volevano significare il ringraziamento agli dei per la fine dell’inverno e l’auspicio per un buon raccolto con l’avvento della primavera. Oltre a questo, nelle domeniche di maggio, si faceva l’infiorata amorosa dinanzi alla casa della fidanzata, a significare che l’innamorato si impegnava a portarla all’altare. Sempre a maggio, una festa molto importante era quella dell’Ascensione, che creava tanta attesa. I campagnoli usavano condurre al pascolo il bestiame prima che sorge il sole, perché pascoli le erbe madide di rugiada benedetta, che è la rugiada discesa dal cielo, mentre il Cristo risorto vi ascende. Tra le tante credenze, notevole è quella relativa all’apparizione della testa di San Giovanni Battista, al sorgere del sole, proprio il giorno dell’Ascensione. Circa alle quattro, al primo sorgere dell’alba, gruppi di fanciulle scalze, mettevano i piedi nell’acqua del mare, in attesa del sorgere del sole e non tardavano a vedere delinearsi i lineamenti del volto del santo. Queste pratiche e credenze erano diffuse particolarmente a Porto Recanati e Civitanova. Ma l’Ascensione richiama alle altezze, invita a guardare in alto e a salire.
Ciclo del solstizio d’estate.
E’ questo il tempo della mietitura, della festa dei campi; nessun’altra festa del maceratese vede riunite tante pratiche e credenze superstiziose e magiche come la festa di San Giovanni Battista, in particolare quelle degli innamorati che desiderano affrettare le nozze. Quella che precede San Giovanni, è la notte delle streghe per eccellenze. Molti credono che le streghe possono “operar fatture, cioè mediante parole, cerimonie e pratiche superstiziose destare e fomentare amori, porre impedimento a connubi, consumare lentamente la vita degli infanti”. La paura delle streghe è tanta che, per metterle in fuga, le donne mettono le scope dietro alla porta di casa, credendo così che le streghe, vedendo le scope, non possano fare a meno di contare tutti i fili di saggina da cui sono formate. La rugiada della notte della festa di San Giovanni è legata alla tradizione dell’acqua odorosa di San Giovanni: praticato un po’ ovunque nel maceratese è infatti il bagno con acqua intrisa di fiori. In piena estate si celebrava, e si fa tuttora, a Macerata, la Festa di San Giuliano (S. Gnulià l’Ospitaliere), patrono di Macerata.
Secondo un autore la festa di San giuliano in origine era un mito solare, cioè San Giuliano vorrebbe dire risplendente, e non sarebbe che “il sole in leone”. La tradizionale fiera che si fa a San Giuliano risale invece al 1675, quando Clemente X concedette il “breve” che autorizzava la fiera per 15 giorni successivi. Oggi di tradizionale rimangono le specialità gastronomiche della “papera in umido e arrosto e dei maccheroni conditi con il sugo della papera”. Altra festa importante è quella delle Canestrelle, che consiste nell’offerta di grano alla Madonna. Siamo alla fine del solstizio d’estate, quando ormai i lavori della mietitura sono finiti e sulle aie si balla al suono dell’organetto. Fra l’offerta delle primizie della terra alla Madonna, maggiore importanza e solennità assume quella del grano. In questa festa si possono notare sopravvivenze di pratiche e culti antichissimi. L’offerta del grano alla Madonna, rievoca l’offerta del grano che gli antichi solevano fare in onore della dea Cibele. La festa delle Canestrelle o delle Cove, si è estesa anche alle cittadine e alle campagne del maceratese. Dalle piane del Chienti e Potenza, e dalle belle e ondulate colline, il grano giungeva al Santuario della Madonna della Misericordia di Macerata, prima sui carri tirati dai buoi, poi su autocarri, trattori e motorette adorne di fiori. Questa festa, che si fa ancora oggi, ai primi di settembre, è l’esaltazione più pura del lavoro dell’uomo e della sua schietta religiosità.